Giacomo Porra
Tra i sentieri del páramo: conservazione ad alta quota
Aggiornamento: 30 ott
All’improvviso la foresta – umida, verdissima e sfolgorante di vita – finisce. Gli alberi si diradano di colpo, lo sguardo si apre su una distesa dorata, infinita, quasi surreale dove abbondano i frailejones. Appoggio lo zaino e riprendo fiato. Sono arrivato al páramo. Siamo nel Parque Nacional Natural Los Nevados, al confine tra i dipartimenti di Quindio e Tolima, nelle ande colombiane. Con me ci sono Silvio e Silvia, biologi. Lui lavora per il parco nazionale, e da quarant’anni cammina per queste montagne. Lei lavora per il comune di Salento, il villaggio più vicino, una delle entrate principali al parco. Ci siamo conosciuti in cammino, mentre salivano al paramo per fare degli studi ambientali, raccogliere dati e monitorare lo stato di conservazione di questo fragile ecosistema.

“Da qui nascono sorgenti che danno da bere a 3 milioni di persone in quattro dipartimenti – mi racconta Silvia, mentre cerco di stare al suo rapido passo –. proteggere questo paramo è di fondamentale importanza, e la gente non lo sa. La maggior parte delle persone che vivono qui sotto, a Salento, quassù non ci sono mai stati. E il turismo cresce, i terreni adibiti al pascolo si espandono. Noi cerchiamo di tenere tutto sotto controllo, di assicurarci che non si passi il confine”. La pianta più rappresentativa del paramo e indubbiamente il frailejon (Espeletia hartwegiana). Una delle poche che si è adattata alle dure condizioni andine. Da lontano può quasi ricordare una palma, ma, curiosamente, fa parte della stessa famiglia dei girasoli. “L’estrema importanza di questa pianta – mi spiega Silvio - sta nel fatto che è un collettore d’acqua: tramite la capillarità cattura la nebbia e la trasferisce al suolo. Cresce solo un centimetro all’anno. Qui abbiamo alcuni esemplari che superano i tre metri. Significa piante che hanno vissuto trecento anni, non è impressionante?”
Passiamo la notte alla finca La Playa, una rustica capanna con alcuni posti letto – in dotazione, tre coperte per proteggersi dal freddo notturno –, una calda cucina con il fuoco sempre acceso e la simpatica signora Luz, pronta ad accoglierti con un’agua panela (bevanda calda a base di acqua e panela, succo di canna da zucchero solidificato) bollente. Intorno, pascolano liberi cavalli e vacche. Ogni giorno, i pastori scendono con le mule a portare latte e queso campesino fresco in paese. Il mattino dopo ci svegliamo all’alba, e iniziamo il cammino di monitoraggio. La prima tappa è con Enrique, che si definisce “il piu grande conservazionista de los nevados”. Ha in affido un enorme terreno, conosciuto come “finca Japon”, centinaia di chilometri quadrati che comprendono tutta la vallata in cui mi trovo. “Prima qui tenevamo vacche, facevamo il formaggio come gli altri, ora - mi spiega orgogliosamente Enrique -, questo territorio è una zona produttrice di aria e ossigeno, per il mondo”.

Continuiamo il sentiero fino ad arrivare alla laguna El Encanto. La nebbia si dirada, e lascia intravedere le sponde del freddo specchio d’acqua. “Nove, dieci, undici... tu quante ne conti Giacomo?” Stiamo osservando alcuni esemplari di anatra delle Ande (Anas andium) che vivono in questa laguna: qui sono una specie a rischio estinzione, ogni anno il loro numero diminuisce. Silvia nota della spazzatura, che raccogliamo e portiamo con noi. Annota le coordinate e i dettagli del ritrovamento. “Fino a qualche anno fa qui si poteva campeggiare, per passare la notte vicino all’ultima parte del sentiero che porta alla cima del Nevado del Tolima. La natura circostante ne stava risentendo moltissimo. A volte, con le grandi agenzie turistiche di Salento, venivano gruppi di decine di persone lasciando tantissima spazzatura. Fortunatamente siamo riusciti a farlo proibire. Ora, se qualcuno vuole passare la notte, lo fa qualche chilometro più in giù, in una delle fincas che offrono alloggio”.
Proseguiamo il cammino annotando osservazioni, tracce di mula dove non dovrebbero esserci, altra spazzatura lasciata da precedenti campeggiate. Fino a giungere alla base del Nevado del Tolima, a 4860 metri. Da qui per proseguire è obbligatorio avere con sé corde, ramponi e piccozze. L’altitudine si fa sentire, soprattutto negli ultimi duecento metri di dislivello. Il ghiacciaio splende, imponente, davanti ai nostri occhi. Un cartello ci indica che qui, nell’anno 1990, era il limite delle nevi. Il cartello con il limite del 1950 l’abbiamo incontrato centinaia di metri più in basso. Oggi, il primo ghiaccio si calpesta a un’altitudine di oltre cinquemila metri. Il suo stato è critico, e si prevede che scomparirà completamente tra il 2040 e il 2050. Il clima cambia, le temperature salgono, il ghiaccio si scioglie. Anche il limite del paramo sale, diventa inospitale per i frailejones. E l'equilibrio si rompe, l'acqua non viene più immagazzinata e 38 comuni restano senz'acqua. Il paesaggio cambia, la biodiversità diminuisce. Molte specie scompaiono perché non hanno il tempo materiale per adattarsi al repentino cambiamento. E così si perde un valore immenso.
La soluzione qual è? Esiste davvero una soluzione? Chiuderlo a proteggerlo a ogni costo, annullando ogni attività umana? Accettare il fatto che non cambierà nulla e il ghiacciaio sia destinato a morire, quindi tanto vale vederlo da vicino per l’ultima volta? Accomodarsi al pensiero che tra un po’ la razza umana si estinguerà e in qualche centinaio di migliaia di anni (bazzecole, da una prospettiva geologica) tutto tornerà in equilibrio? Tutte opzioni e prospettive valide – o quasi. In molte zone dell’America Latina le popolazioni indigene chiudono le porte dei loro territori a qualsiasi straniero, non accettando alcuna visita esterna. Ci sono casi in cui si può fare turismo solo accompagnati e per molto denaro, trasformandolo però in un turismo elitario, limitato, accessibile solo a una piccola percentuale del pianeta (approfondimento in un altro articolo).
Noi, ovviamente, come europei e italiani – nonostante crederci “primo mondo” - non abbiamo proprio nulla da insegnare a livello di conservazione. Basti vedere per esempio le condizioni delle Dolomiti, tra turismo di massa e impianti di risalita. Quello di cui c'è bisogno - ne parlavo con Silvia, nel paramo - forse è semplicemente educazione, sensibilizzazione, avvicinamento al territorio in maniera cosciente. Per noi il selvatico è solo una risorsa da sfruttare, da cui trarre profitto. Scavando, rompendo, costruendo, coltivando, formalizzando, settorializzando, comprando, vendendo. Talmente “civilizzati” che siamo completamente staccati dal mondo naturale. Non tutti, ovviamente. E non ne faccio una colpa. Ma dobbiamo fare qualcosa, per cambiare. Un piccolo sforzo, una piccola spinta. Basterebbe cosi poco. Soffermarsi a guardare il muschio, per esempio. Camminare per il bosco con una persona che lo conosce veramente, che ti apre gli occhi nei dettagli, nelle connessioni tra le specie vegetali, nei segreti dell’ecosistema. Così, proteggere la natura, diventerebbe un fatto imprescindibile, facile, ovvio.
Giacomo Porra


Cartello di indicazioni; fiori di frailejon; Silvio e Silvia appuntando dati e coordinate

